FIDES ET SCIENTIA

SILVANO FUSO


Recentemente i media hanno dato ampio spazio alla emanazione dell'enciclica Fides et ratio da parte di Giovanni Paolo II. Non è nostra intenzione commentare il documento papale che è già stato acutamente chiosato da Tullio Regge nella rubrica che cura abitualmente su Le Scienze1. Tuttavia l'enciclica ha riproposto lo scottante problema del dibattito tra fede e ragione, nel quale anche il Cicap viene spesso, suo malgrado, coinvolto.

Nel presente articolo vogliamo affrontare alcuni temi fondamentali del rapporto tra scienza e fede che, nel nostro intento, dovrebbero fornire un contributo di chiarezza e stimolare una discussione.

Gli scienziati e la fede

La posizione degli scienziati relativamente al problema religioso può essere quanto mai varia e diversificata. Alcune ricerche, tuttavia, hanno fatto emergere alcuni aspetti significativi.

Un primo studio risale al 1914 e venne condotto dallo psicologo James H. Leuba2. Intervistando un campione casuale di 1000 scienziati statunitensi, Leuba trovò che il 58% si dichiarava ateo o agnostico. In un sottocampione di 400 scienziati di maggior spicco, tale percentuale saliva al 70%. Lo stesso Leuba ripeté lo studio nel 19343 e trovò che le percentuali erano salite, rispettivamente, al 67 e all'85%.

In anni più recenti uno studio dello stesso tipo è stato ripetuto da altri due ricercatori, Edward J. Larson e Larry Witham. Nel 19964 i due studiosi riscontrarono solo piccoli cambiamenti rispetto alla percentuale trovata da Leuba nel 1934. (I dati acquistano maggior significato se si tiene conto che il 93% della popolazione degli Stati Uniti professa una fede religiosa). Più recentemente, nel 19985, gli stessi autori hanno compiuto un'ulteriore indagine limitata a un secondo campione, dello stesso tipo del sottocampione di Leuba, ovvero costituto da "grandi scienziati". Per individuare gli elementi di un simile campione, Larson e Witham hanno fatto riferimento ai membri della National Accademy of Sciences (NAS). Mediamente, nel campione considerato, la percentuale degli scienziati che dichiarano di credere in Dio risulta essere del 7%. La percentuale varia a seconda del tipo di scienziati intervistati: i meno credenti risultano i biologi, seguiti da fisici e astronomi, mentre i più credenti risultano i matematici. Risultati simili si sono ottenuti relativamente alla credenza nell'immortalità dell'anima.

Scienza e metafisica

I risultati dei precedenti studi si prestano a interpretazioni di vario genere. Lo stesso Leuba4, nel 1934, attribuiva la scarsa credenza degli scienziati alla loro "superiore conoscenza, comprensione ed esperienza". Tuttavia per comprendere meglio i risultati dei sondaggi precedenti, è opportuno esaminare più nei dettagli i rapporti tra scienza e fede.

Come abbiamo già avuto modo di affermare in un precedente articolo6, la scienza e la metafisica possiedono domini ben definiti e distinti. La scienza, occupandosi per definizione di fenomeni empirici, esclude ogni problematica di competenza della metafisica (e quindi della religione). Di conseguenza la prima non può pronunciare alcun giudizio sulla seconda (neppure di non esistenza), se non vuole rischiare di essere contraddittoria. Nella vita di ciascuno vi sono però inevitabilmente molti aspetti che si collocano al di fuori delle competenze della scienza. In tali settori può trovare spazio la metafisica e, all'interno di essa, anche la fede religiosa. La scienza, ad esempio, può fornirci preziosissime informazioni su che cosa sia la vita e come funzioni, ma non potrà mai dare risposte alla domanda "che senso ha la vita?". Analogamente la scienza può offrire straordinari elementi per capire la struttura dell'universo e forse anche sulla sua origine, ma non potrà mai spiegarci "perché l'universo esiste e quale sia il suo scopo". Queste domande, che pure assillano da sempre la mente umana, non possono trovare una risposta nella scienza. Come affermava Ludwig Wittgenstein:

Noi sentiamo che se pure tutte le domande della scienza ricevessero una risposta, i problemi della nostra vita non sarebbero nemmeno sfiorati. Certo, non rimane allora alcuna domanda; e questa è appunto la risposta7.

Di fronte all'impossibilità di fornire una risposta a queste domande, l'atteggiamento può essere vario. Da un lato ci si può accontentare di sospendere il giudizio e di assumere, di conseguenza, una posizione agnostica. Dall'altro si possono inventare risposte di tipo metafisico e religioso. Dal punto di vista strettamente logico, l'atteggiamento agnostico appare quello più razionale. La scelta di credere a una spiegazione metafisica è inevitabilmente irrazionale o meglio a-razionale. Egualmente irrazionale è la scelta di coloro che negano categoricamente ogni possibile risposta metafisica sfociando in un ateismo rigoroso. In entrambi i casi, tuttavia, si tratta di una irrazionalità perfettamente lecita e del tutto innocua, che può tranquillamente convivere con una mentalità di tipo scientifico. Si tratta, infatti, di scelte il cui unico arbitro è l'individuo stesso e sulle quali, pertanto, ogni opinione è lecita. Di conseguenza anche uno scienziato, come tale, deve necessariamente sospendere il giudizio, ma come uomo può benissimo seguire una scelta atea, agnostica o religiosa. Questa conclusione, tuttavia, non spiega ancora le basse percentuali di credenza religiosa messe in evidenza dagli studi citati.

La natura "obbligatoriamente" immanente della scienza

Quando Pierre Simon de Laplace presentò a Napoleone la sua opera Exposition du système du monde, si sentì osservare dall'imperatore "Non ho trovato nessun riferimento a Dio nella sua opera". Laplace rispose: "Non l'ho ritenuta un'ipotesi necessaria".

Questo aneddoto, illustra bene qual è il rapporto tra scienza e fede religiosa. La scienza, per sua natura, deve fare a meno di ipotesi metafisiche e trascendenti: se vi facesse ricorso si autodistruggerebbe. Essa ha l'obbligo di studiare fatti empirici e di trovare relativamente ad essi catene causali nell'ambito dell'immanente. La storia della scienza mostra che ogni qual volta sono stati introdotti elementi metafisici (non confermati empiricamente) nell'interpretazione dei fenomeni naturali, lo sviluppo delle conoscenze ha subito un danno. Questo dovrebbe apparire abbastanza comprensibile. Se di fronte ai fulmini l'uomo si fosse limitato ad accettare la spiegazione che li interpretava in termini di "ira divina", le nostre conoscenze sui fenomeni elettrici non si sarebbero mai sviluppate. Le spiegazioni metafisiche e trascendenti bloccano la conoscenza. La scienza cerca di interpretare il mondo, in termini naturalistici, facendo a meno di ipotesi trascendenti e sovrannaturali e, finora, ha dimostrato di riuscirci perfettamente. Quattrocento anni di cultura scientifica, infatti, hanno sicuramente prodotto più conoscenza di millenni di cultura metafisica.

È sicuramente questo il senso della frase dello scienziato contemporaneo Peter W. Atkins, della Oxford University, citato da Larson e Witham, nel loro lavoro del 98:

You clearly can be a scientist and have religious beliefs. But I don't think you can be a real scientist in the deepest sense of the word because they are such alien categories of knowledge7.

(Tu puoi chiaramente essere uno scienziato e avere credenze religiose. Ma io non penso che tu possa essere uno scienziato nel senso più profondo della parola poiché esse sono categorie totalmente estranee alla conoscenza).

L'abitudine mentale degli scienziati a non prendere in considerazione ipotesi trascendenti può quindi permettere di interpretare i risultati degli studi di Leuba, Larson e Witham. È una caratteristica tipica della scienza quella di sospendere il giudizio in mancanza di elementi e rifiutare ogni dogmatismo. Di conseguenza la naturale posizione che uno scienziato può prendere di fronte al problema religioso è un umile agnosticismo. Come già sottolineato, tuttavia, questo non significa che anche uno scienziato, come uomo, non possa avere credenze religiose compatibili con la propria mentalità scientifica.

I miracoli

Il terreno in cui lo scontro tra scienza e fede si fa più acceso è quello dei miracoli. Essi, per definizione, consisterebbero in violazioni delle "leggi naturali" che la scienza, faticosamente, cerca di svelare. Evidentemente chi crede in un'intelligenza trascendente che governa l'universo può benissimo credere alla possibilità che essa intervenga per violare le regolarità da essa stessa stabilite. Dal punto di vista razionale ciò appare per lo meno singolare, ma in linea di principio non può essere escluso. I miracoli, tuttavia, sono per definizione fenomeni empirici e, di conseguenza, rientrano legittimamente nel campo di indagine della scienza. Il problema di fondo che bisognerebbe chiarire prima di qualsiasi discussione è la loro esistenza. Purtroppo finora non sono mai state fornite prove scientificamente accettabili dell'esistenza di un solo miracolo. Ma poniamoci la seguente domanda: "Di fronte a prove inconfutabili che dimostrassero l'esistenza di un fenomeno prodigioso, cosa dovrebbe fare la scienza?". Dovrebbe forse unirsi al coro di coloro che gridano al miracolo? Evidentemente, se così facesse, la scienza verrebbe meno al suo compito. La scienza ha il dovere di essere scettica e di ricercare spiegazioni naturalistiche: a costo di rivedere se stessa e le proprie convinzioni. Le stranezze della meccanica quantistica, ad esempio, hanno indubbiamente aspetti prodigiosi rispetto alle conoscenze elaborate dalla fisica classica. Tuttavia tali aspetti sono stati accertati al di là di ogni dubbio. Anziché gridare al miracolo, la scienza ne ha preso atto e ha modificato le proprie concezioni relativamente alla realtà microscopica. Tale atteggiamento di rifiuto sistematico del "miracolistico" non deve essere considerato una pregiudiziale, ma una componente inevitabile cui la scienza deve la sua stessa esistenza.

Un cenno particolare meritano le cosiddette guarigioni miracolose. A parte i numerosi casi dichiarati ma non sufficientemente dimostrati, sembra ormai sicuro che in talune gravi patologie (compresi i tumori) siano stati accertati casi di remissioni spontanee, sia pure con incidenze statistiche bassissime. Gridare al miracolo di fronte a simili casi avrebbe come unico risultato il blocco delle conoscenze nel settore. Alcuni casi di remissione spontanea non sono ancora interpretabili con le attuali conoscenze. Ma sicuramente, studiando accuratamente questi casi, si potranno sviluppare nuove conoscenze che potranno, in futuro, condurre alla messa a punto di terapie valide. Se, ad esempio, nel XVII secolo si fosse gridato al miracolo di fronte alle guarigioni dalla malaria, indotte dall'assunzione di corteccia di china ("corteccia del Perù"), non si sarebbero mai scoperte le proprietà terapeutiche del chinino.

Conclusioni

Alla luce delle precedenti considerazioni, possiamo trarre alcune conclusioni. Scienza e fede possono benissimo convivere a patto che ciascuna rimanga all'interno del proprio dominio. La fede deve limitarsi all'ambito prettamente metafisico e non può interferire in ciò che può essere indagato empiricamente. Analogamente la scienza deve astenersi da ogni giudizio su tutto ciò che è tipicamente metafisico. I contrasti nascono inevitabilmente ogniqualvolta vi siano interferenze. I miracoli rappresentano l'esempio più evidente di tali interferenze. Essi, inevitabilmente, appartengono a forme primitive di religiosità e non sembrano differenziarsi molto dalle semplici superstizioni. Una religiosità evoluta, infatti, non ha bisogno di prove empiriche per sostenere una fede metafisica. Oltretutto il pretendere prove empiriche per sostenere affermazioni metafisiche appare piuttosto contraddittorio.

Un altro ambito particolarmente delicato per quanto riguarda i rapporti tra scienza e fede è quello delle norme etiche. Molte fedi religiose, infatti, derivano dalle loro credenze metafisiche una serie di norme comportamentali che, inevitabilmente, rientrano nell'ambito empirico. Finché le norme morali interessano il singolo individuo, ognuno ha il diritto di comportarsi come meglio crede e, di conseguenza, non si crea nessun contrasto tra fede e scienza. I problemi nascono quando queste norme coinvolgono anche gli altri. Se le norme morali di una fede religiosa impongono, ad esempio, che ci si può liberamente riprodurre senza limiti, mentre la scienza dimostra che esiste un limite alla popolazione che il pianeta Terra può sopportare, il conflitto è insanabile. Analogamente, il singolo è padrone di rifiutare per sé una trasfusione di sangue, ma quando il problema riguarda un congiunto e la scienza afferma l'assoluta necessità dell'intervento per garantirne la sopravvivenza è difficile conciliare le due posizioni.

In sostanza i contrasti tra scienza e fede nascono dal fatto che quest'ultima appartiene inevitabilmente alla sfera delle opinioni individuali, mentre la scienza, come abbiamo visto nei precedenti articoli, tende al superamento delle opinioni attraverso un accordo intersoggettivo. La fede, quindi, se vuole poter convivere pacificamente con la scienza deve limitarsi esclusivamente agli ambiti in cui le singole opinioni individuali sono lecite. In tutti gli altri ambiti il conflitto appare insanabile. Di questo le religioni positive sembrano essere state da sempre consapevoli: infatti hanno costantemente visto come un pericolo la scienza e il libero pensiero.

Riferimenti

1) T. Regge, "Il dialogo mancato", Le Scienze n. 364, dicembre 1998;

2) J.H. Leuba, The Belief in God and Immortality: A Psychological, Anthropological and Statistical Study, Sherman, French & Co., Boston, 1916;

3) J.H. Leuba, Harper's Magazine 169, 291-300 (1934);

4) E.J. Larson & L. Witham, Nature 386, 435-436 (1997);

5) E.J. Larson & L. Witham, Nature 394, 313 (1998);

6) S. Fuso, "Scienza, metafisica e valori", Scienza & Paranormale n. 20, 1998;

7) L. Wittgenstein, Tractatus logico philosophicus, Einaudi Torino 1974;

8) R. Highfield, The Daily Telegraph 3 April, p. 4 (1997).